“Una legge fascista (sulla difesa della lingua italiana!) ha fatto dell’Italia la camera a gas dei film stranieri”. Questa è l’opinione che il regista francese Jean-Marie Straub espresse nel 1970 riguardo al doppiaggio italiano.
In effetti, il percorso che portò alla nascita del doppiaggio italiano ebbe origine da una legge del 1930 che vietava la diffusione di pellicole parlate in lingua straniera. Prima di questa data, i film venivano tradotti tramite l’inserimento di didascalie in corrispondenza dei dialoghi.
Ma il doppiaggio non fu il passo immediatamente successivo.
La prima soluzione pensata per combattere l’ingresso delle pericolosissime lingue straniere in territorio italiano fu quella di rendere muti i film parlati. Venivano lasciati solo musica e rumori di sottofondo mentre i dialoghi venivano sostituiti da didascalie. Il problema sorse quando i dialoghi cominciarono ad aumentare: a quel punto fu chiaro anche ai più ostinati che la “sonorizzazione”, questo il nome di tale pratica, non poteva essere la soluzione definitiva.
Nel frattempo, a Hollywood si erano dati da fare per rendere fruibili in tutto il mondo i propri prodotti parlati in lingua inglese. Nacquero le versioni plurime, che consistevano nel girare lo stesso film in tante versioni quante le lingue di distribuzione. Per farlo, talvolta si usavano gli attori originali, altre volte venivano sostituiti da attori improvvisati. In entrambi i casi i risultati furono pessimi.
È qui che entrò in gioco il doppiaggio. I primi studi di doppiaggio sorsero a Hollywood, ma in seguito a una seconda legge del 1933 che imponeva che tutti gli adattamenti supplementari dei film fossero effettuati in studi situati in territorio italiano, prevalsero i doppiaggi eseguiti in Italia.
Già dalla sua nascita, il doppiaggio riscosse molte critiche negative. Vi fu chi lo definì un “assassino” e una “mostruosità”, chi lo riteneva “una sfida sacrilega alla personalità umana”, chi lo considerava il “gemello ritardato” del cinema parlato, “un atto contro natura”. Ma quali erano le proposte alternative di quelli che tanto criticavano questa nuova pratica?
Alcuni proponevano di doppiare solo i film di minor conto lasciando le opere più nobili nella loro versione originale, ma a chi sarebbe spettata tale decisione? Altri consigliavano di usare didascalie sovraimpresse o riassunti che facessero capire allo spettatore il significato generale. Entrambe queste possibilità influivano, però, sulla godibilità del prodotto e sulla resa artistica, rendendo quindi l’esperienza insoddisfacente.
In seguito a questo breve excursus, appare evidente che una legge fascista sia stata il trampolino di lancio per la nascita del doppiaggio italiano, ma quale delle alternative elencate sarebbe stata una soluzione più efficace in un’Italia analfabeta come quella di quegli anni?
Rispetto a queste critiche che mettevano in dubbio il valore artistico del doppiaggio, sono più comprensibili quelle di coloro che si preoccupavano di come il regime fascista potesse sfruttarlo per variare il significato di un discorso o il tema di un film che non si adeguassero ai suoi canoni.
È indubbio che il doppiaggio fu una soluzione assai comoda per il regime. Gli interventi censori, che fino a quel momento erano stati attuati con la traduzione delle didascalie, ora potevano essere completamente mascherati, grazie alla totale assenza di tracce della lingua originale.
In effetti, vi sono casi in cui il doppiaggio venne sfruttato per manipolare i contenuti e i messaggi veicolati dalle opere cinematografiche. Tali interventi potevano essere di diversa entità, da piccoli cambiamenti nei dialoghi a veri e propri stravolgimenti della trama, e potevano essere dovuti a motivi differenti.
Uno dei motivi principali che poteva portare all’alterazione di una pellicola era la rappresentazione dell’italianità. Per il regime fascista era fondamentale che l’immagine dell’Italia, tanto in casa quanto all’estero, fosse positiva e rispettabile, come si confaceva a un Paese dalla storia così gloriosa. Per cui, quando in un film si trovava un personaggio italiano o di origine italiana che non era rappresentato in maniera consona rispetto ai canoni del regime, era necessario intervenire. Il caso più eclatante di manipolazione dovuta a questo motivo si ha nel film di Archie Mayo The Adventures of Marco Polo (1938).
Secondo alcune testimonianze dell’epoca, nel film l’esploratore veneziano non risulta trattato con il rispetto dovuto a un personaggio di quel calibro, apparendo talvolta goffo e ispirando più ilarità che grandiosità. Ragion per cui il film uscì in Italia con il titolo Uno scozzese alla corte del Gran Kan e con tutte le modifiche che si dovettero attuare al fine di creare un prodotto coerente. Marco Polo diventò McBone Pan, il suo aiutante Bignuccio divenne Mcniff, e tutti i riferimenti a Venezia e all’Italia vennero tagliati o celati.
In altre occasioni, la censura agì spinta da motivazioni di carattere morale. In alcuni casi, si ricorreva al doppiaggio per modificare dei dialoghi in modo da rendere meno giustificabili le azioni “sbagliate” dei personaggi quando questi ultimi erano sulla carta personaggi negativi, come ad esempio criminali, suicidi o adulteri, che però suscitavano nel pubblico sentimenti di compassione e comprensione.
Un esempio di questo tipo di manipolazione si riscontra in alcuni dialoghi di Alba tragica, film di Marcel Carné del 1939, in cui il protagonista, dopo aver ucciso il suo rivale in amore, si suicida. In questo caso il personaggio risulta doppiamente colpevole, e quindi doppiamente censurabile: all’epoca il suicidio era un tema tabù, che la maggior parte delle volte veniva eliminato tramite il taglio di alcune scene. In altri casi, si sfruttò il doppiaggio per rendere mogli e mariti adulteri dei semplici fidanzati o un divorzio un mero diverbio tra innamorati.
La famiglia era infatti la colonna portante della società italiana fascista e minarne il valore tramite la rappresentazione di divorzi e adulteri era inammissibile. Troviamo alterazioni di questo tipo nel film del 1934 Catturato!, come in Cerco il mio amore, uscito anch’esso nel 1934 e in cui appaiono per la seconda volta insieme Fred Astaire e Ginger Rogers, e in Il fantino del Kent, del 1937.
Infine, si poteva sfruttare il doppiaggio per eliminare riferimenti a valori politici che si discostavano da quelli del regime, come potevano essere gli ideali socialisti, ed anche qualsiasi richiamo alla situazione politica contemporanea. Ad esempio, nella pellicola Gli uomini della mia vita (1932) vennero modificati i dialoghi in cui veniva fatto cenno a Mussolini, mentre in Viva Villa! (1934) si dovettero modificare le frasi a tinta socialisteggiante.
Inoltre, non era ammessa la rappresentazione di temi quali l’antimilitarismo e la diserzione poiché, oltre a trovarsi in un periodo in cui ci si avvicinava vertiginosamente al conflitto mondiale, gli ideali fascisti inneggiavano all’uomo coraggioso e pronto a sacrificarsi per la patria. Proprio per questo, nel film Il porto delle nebbie (1938) di Marcel Carné, il protagonista da disertore venne trasformato in un militare in licenza.
Quali che fossero le motivazioni che spingevano alla manipolazione delle opere straniere, il fine era lo stesso: celare gli elementi che non si confacevano alla circolazione nell’Italia fascista e sostituirli con contenuti in linea con gli ideali del regime.
Questa analisi ha messo in luce il grande potere del doppiaggio che, se svolto senza tener conto dell’etica del mestiere, da mezzo di mediazione culturale può essere trasformato in un’arma.
Tale immagine mette in relazione il doppiaggio a molte scoperte e invenzioni dell’uomo: si pensi al radio che, isolato sul finire dell’Ottocento dai coniugi Curie, avrebbe avuto impieghi positivi nel campo della medicina ma sarebbe stato anche alla base dello sviluppo della bomba atomica.
Sta ai professionisti del mestiere custodire e trasmettere i contenuti delle opere in modo fedele e accurato resistendo alle pressioni esterne che possono sciupare la magia di questa arte.
Di Federica Vai