Insomma dai, alla fine il problema è stato risolto.
Quell’annosa piaga (inter)nazionale che è il doppiaggio, finalmente sembrerebbe arrivata al capolinea.

Nonostante gli sforzi della categoria per demolire l’arte del doppiaggio, sembrerebbe che le macchine, con la loro fredda efficienza, ci abbiano battuti sul tempo.
È notizia recentissima, infatti, che in Israele è allo studio un software basato sull’intelligenza artificiale, il quale sarebbe in grado di rimodulare in qualunque lingua le battute pronunciate dagli attori di presa diretta.

E quindi addio Pannofino! Io George Clooney potrò sentirlo con la sua vera voce, ma in italiano!
Certo, i primi test eseguiti su dei banalissimi speaker informativi hanno dato dei risultati tra il comico e il raccapricciante, ma siamo solo alle prime fasi di sperimentazione, giusto? Chissà quali progressi fantascientifici arriveranno nei prossimi mesi.
Ho paura di no.

Temo di avere una brutta notizia per tutti quelli che già esultavano per l’eliminazione del doppiaggio, per l’abbattimento di questa casta / mafia / combriccola di persone terribili e malvagie che non hanno altro scopo nella vita se non quello di snaturare / violentare / rovinare / deturpare film meravigliosi impedendo ai puristi di gustarseli nello splendore della versione originale.

E anche per tutti quei furbacchioni del settore che già vedevano i costi di doppiaggio ridotti a un osso ancor più spolpato di quello al quale cercano di ridurli ora.
Ma prima di riflettere sul perché questa intelligenza artificiale non sta funzionando, vorrei fare un appello sia ai più strenui difensori del doppiaggio, sia (soprattutto) ai suoi più accaniti detrattori. E l’appello è molto semplice:
Stiamo calmi. Molto, molto calmi.

Come non mi stanco mai di ripetere, il doppiaggio è uno strumento di mediazione culturale. Al pari della traduzione di un romanzo straniero. Al pari dei tanto celebrati sottotitoli.
Rispetto ai sottotitoli, però, il doppiaggio pone in campo la sensibilità.
La sensibilità di un direttore che studia l’opera e (quando gli è permesso) distribuisce quelli che lui ritiene gli attori più giusti per coprire i ruoli.

La sensibilità dell’attore doppiatore che, chiamato al turno e guidato dal direttore, in poco tempo deve decodificare il personaggio e calarsi nei suoi panni per restituire emotivamente (e non solo linguisticamente) il senso della sua interpretazione originale in una lingua diversa.
Tutto questo ha elevato il doppiaggio a una forma d’arte, ma stiamo comunque parlando di uno strumento di mediazione culturale.

Strumento del quale, mai come oggigiorno, è stato facile non avvalersi.
La lingua originale è alla portata di tutti: negli home video, nelle piattaforme streaming, nelle proiezioni in sala, chi vuole rifuggire dal doppiaggio ha tranquillamente la possibilità di evitarlo.
E allora perché infervorarsi e scomodare parole come “stupro dell’originale”? Non amate il doppiaggio? Ottimo! Evitatelo!
“Ma è per colpa del doppiaggio se in Italia nessuno parla inglese”, griderà allora l’incrollabile detrattore cercando con scarso successo di nascondersi dietro a un dito. Rubando le parole a Luke Skywalker, mi verrebbe da rispondere «Incredibile. Quasi tutto quello che hai detto è sbagliato».
Non è vero che in Italia nessuno parla inglese.
Se anche fosse vero, si potrebbe ipotizzare una colpa del doppiaggio in tal senso se l’Italia fosse l’unico Paese al mondo in cui si doppia.
Il che, ovviamente, non è assolutamente vero.
Siamo tra quelli che doppiano di più, ma al mondo ci sono almeno altri trenta Paesi che ricorrono al doppiaggio.
Almeno.
Trenta, eh? Non due e nemmeno cinque o dieci.

E in nessuno di quei Paesi si assiste a così feroci levate di scudi contro il doppiaggio. Anzi! Spesso è proprio dall’estero che arrivano i più calorosi apprezzamenti per l’arte del doppiaggio di casa nostra, mentre noi, da bravi provinciali, ci picchiamo di sputare su questa eccellenza italiana per rendere chiaro a chiunque ci ascolti quanto siamo uomini e donne di mondo, quanto siamo proiettati oltre i confini nazionali, quanto siamo padroni delle lingue che neanche lo Spirito Santo agli Apostoli.

È una polemica sterile e ridicola che ciclicamente torna alla ribalta, recentemente riattizzata da conduttori radiofonici, youtubers, presentatori, giornalisti e chi più ne ha più ne metta.
Poi viene fuori che, di questi detrattori così agguerriti, un buon numero ha provato a fare doppiaggio e ha fallito, scontrandosi con “la casta”, “le famiglie”, “la lobby”, la “mafia romana”.
Altre brutte notizie, amici miei.

Chi scrive ha la fortuna e il piacere di fare il doppiatore da diciassette anni, dopo aver amato questo mestiere al punto di non osare nemmeno sognare di farlo.
Sono nato fuori Roma e sono il figlio di un ingegnere civile e di una casalinga.
Non sono figlio d’arte, non sono approdato al leggio tramite “agganci” e, soprattutto, non sono un caso isolato. Ho una sfilza di amici, amiche, colleghi e colleghe straordinari, molto ma molto più bravi di me, con una storia simile alla mia. Una di queste colleghe l’ho anche sposata.
Ragion per cui, anche qui, temo che il problema risieda altrove. A voi ogni considerazione troppo spiacevole per essere messa per iscritto.
La qualità del doppiaggio è calata negli ultimi anni?
Ahimè, innegabile.
La soluzione è nell’intelligenza artificiale?
Ahimè, impensabile.
E vi spiego subito perché con un esempio.
L’attore o attrice, in originale, dice:
«Always».
I potteriani che leggono avranno già drizzato le antenne.
In linea di massima, ogni lingua ha intonazioni proprie, note musicali che, se trasportate pari pari in un’altra lingua, suonano stonate.
L’intelligenza artificiale riconosce la parola, e dovrebbe essere così sofisticata da trasformare quel “Always” in un “Sempre” pronunciato con intonazione italiana.
Già.
Ma qual è l’intonazione con la quale in Italia diciamo “Sempre”?
In che modo dice “Sempre” la mamma che risponde al figlioletto che vuol sapere in quali casi si debba allacciare la cintura di sicurezza in macchina?
In che modo dice “Sempre” il gerarca nazista al quale viene chiesto quante volte i suoi metodi d’interrogatorio abbiano portato a una confessione?
In che modo dice “Sempre” il padrone di casa al tecnico che gli chiede quante volte nell’ultimo mese la caldaia gli abbia dato problemi?
In che modo dice “Sempre” Severus Piton quando Albus Silente gli chiede se dopo tutto quel tempo lui sia ancora innamorato di Lily Potter?
Potrei continuare con svariate decine di miliardi di esempi. E per ciascuno di quegli esempi, ognuno dei milioni di attori e attrici al mondo potrebbe pronunciare decine, centinaia di “Sempre” diversi, a seconda di un numero infinito di variabili fisiche, emotive, psicologiche, pratiche, tecniche.

Non è mai una buona idea sbilanciarsi su previsioni del futuro (come hanno imparato tutti quei giornalisti che, a metà anni ’90, dicevano che Internet sarebbe stata un fenomeno passeggero), ma mi sento di poter affermare che tutte queste cose, una macchina non potrà mai calcolarle. Semplicemente perché non sono calcolabili né misurabili. Un’emozione sfugge anche alla razionalità di chi la prova: in che modo può essere decodificata da un computer?
Una macchina può simulare l’intelligenza, certo, fare calcoli mostruosi a una velocità per noi inconcepibile, e perfino operare collegamenti logici complicatissimi.
Non può però simulare l’emotività.

C’è un’affermazione di Stefano Benni che descrive la situazione in esame con una minuziosità meravigliosa:
“I computer sono cretini ad alta velocità in dotazione, spesso, a dei cretini molto lenti”.

Di Edoardo Stoppacciaro